Il nemico invisibile della privacy
- Giacoma Chiella
- 10 set 2018
- Tempo di lettura: 4 min

Un barista si procura una scottatura al lavoro, compra una crema per le ustioni in un negozio e, più tardi, su Facebook vede una pubblicità di quella crema. Un uomo al supermercato dice al suo amico di prendere una Red Bull e mentre tornano a casa vedono su Instagram una pubblicità della bibita. Una cuoca sogna di avere un robot da cucina in casa e poco dopo sul telefono appare una pubblicità del robot. Due amici parlano del loro ultimo viaggio in Giappone e, di lì a poco, uno dei due vede la pubblicità di un volo low cost per Tokyo. Sono solo alcune delle strane coincidenze che portano i consumatori di oggi a sentirsi sorvegliati. A volte è solo una coincidenza, a volte è il frutto di oscuri interessi. E più questi interessi verranno alla luce, più sentiremo il bisogno di nuove misure normative o legali.
Ma niente di tutto questo è una novità e la questione non riguarda solo le grandi aziende tecnologiche. Le tecniche di raccolta dati esistono da anni e i servizi online stanno solo accelerando il loro l’uso. Le aziende hanno raccolto le nostre informazioni (con o senza il nostro consenso) da datori di lavoro, registri pubblici, negozi, banche, curriculum e centinaia di altre fonti. Li hanno ricollegati, ricombinati, comprati e venduti ad aziende, pubblicitari e intermediari. Succede da tempo e succederà ancora. L’era del nichilismo della privacy è realtà ed è tempo di farci i conti.
Molte persone pensano ancora che il loro smartphone li ascolti in segreto, registrando le conversazioni per poi passarle furtivamente a Facebook o Google. Facebook in particolare è stata accusata di questa pratica, probabilmente perché è un’azienda di successo e le sue pubblicità sono facili da individuare. Facebook ha sempre negato le accuse e secondo i ricercatori la cosa è tecnicamente impossibile. Ma l’idea rimane
Rimane perché sembra vera e anche perché in parte lo è. Forse Facebook e Google non ascoltano letteralmente le nostre conversazioni, ma osservano le nostre vite. Hanno così tanti dati – e su così tante persone – che è come se stessero monitorando le nostre conversazioni. Siamo in viaggio fuori città in cerca di un ristorante? Facebook e Google non solo sanno dove siamo, ma anche cosa ci piace mangiare – se abbiamo messo un like allo stufato coreano o ai pieroghi polacchi – e dai nostri dati demografici possono intuire il nostro reddito e, di conseguenza, il nostro budget.
Raccolgono i dati in modi inaspettati e spesso scorretti. Lo scandalo Cambridge Analytica ne è un esempio. Più di recente, un rapporto basato sulle ricerche dell’università Vanderbilt, nel Tennessee, ha messo in luce che Google impara molte cose sui suoi utenti basandosi sulla loro navigazione web, sull’uso dei mezzi d’informazione, sulla posizione geografica e sui loro acquisti. Molti dei dati raccolti riguardano la geolocalizzazione, perché i telefoni Android comunicano la posizione dell’utente più di trecento volte in ventiquattr’ore, anche se si disattiva la cronologia della localizzazione del dispositivo. Lo studio ha mostrato inoltre cheanche la navigazione in incognito su Chrome permette comunque a Google di risalire ad alcune informazioni sugli utenti.
Rivelazioni come questa hanno generato delle class action contro l’azienda, e viene voglia d’immaginare che il controllo, la regolamentazione o le ripercussioni legali potranno cambiare il modo con cui in futuro i dati saranno raccolti e gestiti.
Il nemico della privacy non è come il cattivo di un fumetto, che possiamo guardare negli occhi e sconfiggere
La vera differenza tra la vecchia e la nuova era nel mondo del marketing è che finalmente molte persone sono al corrente di queste pratiche. Lo scandalo Cambridge Analytica ha contribuito a rafforzare questa consapevolezza, ma ancor di più hanno fatto le pubblicità strettamente collegate tra loro, che appaiono nelle app o sulle pagine web. È facile confondere la causa più immediata (le aziende tecnologiche) con quella reale: oltre mezzo secolo di tecniche d’intelligence applicate all'economia che si sono perfezionate negli anni.
Questo significa che limitare le informazioni che diamo a Facebook o a Google può aiutare, ma solo fino a un certo punto. Sembra che usare un iPhone invece di un Android contribuisca a nascondere meglio la nostra posizione. Nuove leggi o cause legali potrebbero anche limitare alcuni eccessi dell’economia dei dati. Ma in fin dei conti è una battaglia persa. Davvero pensiamo di smettere di usare Google? O di uscire da Facebook? O di smettere di navigare sul web?
Dare la colpa a Google è una soluzione di comodo. Ci permette di prendere di mira un nemico che sembra degno di essere combattuto. Ma il nemico di questa invasione della privacy dei dati non è il cattivo di un fumetto che possiamo affrontare, mettere in difficoltà e sconfiggere. È una creatura oscura e indefinibile, un mormorio spaventoso e lovecraftiano, impossibile da vedere, tanto meno da toccare e sconfiggere.
Perfino parlare di cloud (nuvola) non è la giusta metafora, perché anche soffiando via il suo gas velenoso resterà comunque un nuova e fredda versione proveniente da fonti ignote. Se non sono i siti web, saranno i prodotti farmaceutici. Se non sono i dati di localizzazione, saranno i beni consumati in famiglia. Se non sono i like e le condivisioni, saranno i rendiconti bancari e i dati demografici. I nostri dati sono ovunque, e da nessuna parte, ed è impossibile sfuggire a loro e alle loro conseguenze.

Condivido con voi una parte dell'articolo scritto su www.internazionale.it in modo da riflettere.
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